San Giorgio e il Drago

paolo_uccello

Messer Giorgio estrasse dal fodero la sua quarta spada, poiché le tre precedenti si erano disintegrate nel tentativo di trafiggere il malefico Drago che infestava l’ingresso della cittadina di Selem.
Roteò la lama sopra il suo capo e si accontentò di fendere l’aria, prima di conficcare la spada nel tumulo di terriccio e sterpaglia che emergeva, come una gobba, dalla pianura circondante il lago.
A che sarebbe servito ripetere ben quattro volte la stessa perdente azione? Quando la spada si trovava in prossimità della gola del Drago, veniva immediatamente incenerita dal suo soffio di fuoco. Tre tentativi erano già stati sufficienti per incutergli profondo avvilimento.
La città era in preda al panico: troppe vite erano state sacrificate alla malvagia creatura, la popolazione era decimata. Non solo, ora l’intero regno era a rischio perché la vita che la bestia reclamava era proprio quella della figlia del re.
La giovane fanciulla si era già offerta di andare incontro al proprio destino. Fu proprio Messer Giorgio a trattenerla. Promise al re e a sua figlia di liberare al più presto il reame dalla maledizione e non dover più pagare pegni di sangue.
Raggiunse il lago presso cui il Drago dimorava. La bestia annusò l’aria e si destò dal suo giaciglio di rovi. Protetto dal suo scudo, il cavaliere avanzava. Il Drago spalancò i grandi occhi: le pupille filiformi sembravano galleggiare su un fondo di braci. Erano gli occhi, più delle fauci, che spaventavano il cavaliere, non riusciva a sostenere quello sguardo atroce, non voleva rintracciarci dentro le origini della creatura, le origini del male. Non voleva carpire i segreti che custodivano, non voleva subirne il fascino né scorgerci la propria fine. Era alla gola che mirava quindi, e al costato per trafiggerne il cuore, ma ne evitava lo sguardo, per lui potente come le mortali fiamme.
Pregò San Michele per uscire dallo sconforto. L’Arcangelo gli promise una nuova spada fatta di un raggio di sole. Messer Giorgio attese in preghiera il dono del Cielo, quando le nubi avvolsero proprio il sole e l’orizzonte si fece sempre più cupo. Per un istante la sua fede vacillò, poi chiese perdono e s’inginocchiò.
Udì all’improvviso una voce chiara di fanciulla: “Messere!”. Una figura sottile sbucò dalla nebbia, le vesti candide oscillarono al soffio del vento, così pure la chioma bionda, lucente come l’aurora.
“Non sono qui perché dubito della parola che mi avete dato, sono qui per onorare la mia gente e il sangue versato per difendere il regno di mio padre”.
Messer Giorgio era stupefatto. La giovane principessa lo pregò di non allontanarla, lo chiese con così tanto ardore che lui non poté far altro che assecondarla. Il Drago percepì l’odore soave della fanciulla, lentamente cominciò a muoversi nella loro direzione. Giorgio pose il proprio corpo a schermo della principessa, lei si ritrasse dietro la figura di lui, ma non mostrò il minimo cenno d’incertezza. La bestia ingorda era già a tiro, spalancò le ali membranose e si rizzò su due zampe. Ancora una volta Giorgio impugnò la sua spada.
“Non abbiate timore!” sussurrò la principessa.
Così Messer Giorgio sferrò un fendente sul muso della bestia, poi incrociò il malefico sguardo. Stavolta però lo fissò dritto negli occhi e così accadde che il tempo si fermò. Successe quello che già sapeva: gli occhi della bestia gli raccontarono il suo destino. Si vide prigioniero e torturato, le sue carni lacerate da spade e chiodi. Si vide appeso e sbeffeggiato… e infine vide con orrore la sua morte. Anzi la provò. E fu tremendo. Cacciò un urlo per dissipare l’agghiacciante visione, barcollando si sorresse con la sua spada.
La bestia allora strappò via con gli artigli la cubitiera della sua armatura e gli ferì il braccio. Il sangue prese a scorrergli come un rivolo rosso, rotolando giù bagnò la terra che lo bevve avidamente.
Il Drago si avventò sulla fanciulla. Giorgio concentrò i pensieri e indirizzò le sue energie.
Mirò ancora alla gola della creatura e scagliandosi con veemenza urlò alla principessa:
“Allontanatevi! Allontanatevi o vi ucciderà!”.
La ragazza era immobile. Sembrava assorta. Giorgio colpì ripetutamente il Drago, ma la sua pelle era dura come una corazza. La bestia si sentì pungolare, distolse l’attenzione dalla preda, e con il muso cercò di scansar via il fastidioso intralcio.
Messer Giorgio saltò allora sul muso della bestia, che prese a scuoter il capo furiosamente.
La principessa si ridestò dai suoi pensieri. Sciolse la cintura dorata che portava in vita e la lanciò in direzione del cavaliere che era ancora aggrappato al muso del Drago, ma ormai aveva perso la sua spada. La cintura divenne una lunga fune brillante, che Giorgio afferrò lestamente.
“Messere! Intorno al collo del Drago, presto!” incitò la principessa.
Strattonato dalla bestia, Giorgio cercò di attorcigliare la fune al Drago come richiesto. La fune cresceva tra le sue mani, facendosi lunga e robusta. Cominciò un corpo a corpo con la bestia, che innervosita prese a sputare fuoco a destra e manca. Riuscì infine ad annodargli un cappio intorno al collo, un attimo prima che la creatura lo scagliasse a terra. Il primo istinto fu di recuperare la spada, ma era più importante riprendere la cima della fune per imbrigliare l’animale.
Giorgio rotolò a terra schivando i soffi mortali, finché ricevette sul costato una frustata inferta proprio dalla corda che penzolava dal collo del suo avversario. Rapidamente l’afferrò, stringendola bene con due mani. Non si rese conto che così facendo avvicinava ancor di più la testa della bestia a se stesso.
Il Drago serrò la mandibola e si trovò faccia a faccia col cavaliere.
Giorgio era impietrito di fronte al muso della bestia e i suoi enormi occhi, ancora più grandi se possibile, perché ancora più vicini. Scorse il suo riflesso in essi e il respiro gli si mozzò.
“Moriresti per me?” gli sussurrò la voce calma della principessa, tenue come lo scirocco che scuote le fronde in estate.
Giorgio era perso nello sguardo del Drago, intrappolato nella sua mente.
Sentiva il suo corpo appesantirsi, la pelle ispessirsi, il respiro farsi lento e le fiamme crescergli dentro. Non aveva più mani ma artigli, sul dorso gli crebbero le scaglie, le vertebre si allungarono a cresta. Dalle scapole si spalancarono ali nere e una fame infernale s’impadronì di lui.
Aveva fame di ciò che non comprendeva, di ciò da cui veniva escluso. Aveva fame di bellezza e amore, che doveva divorare per potersene dimenticare. La fame lo dominava, più del suo desiderio di sentirsi potente, del suo desiderio di sentirsi forte.
Poi vide il cavaliere sotto il suo muso. Piccolo e insignificante… aveva fame e avrebbe potuto cibarsene se non fosse che no, non poteva. Non l’avrebbe mai sfamato, anzi l’avrebbe nauseato, per il semplice fatto che sarebbe stato come cibarsi di se stesso.
Qual era in fondo la differenza tra vivere combattendo in nome della bellezza e dell’amore e reclamare per sé queste nobili attitudini, esigendole come pasto? Non cercavano dunque entrambi un’unione con le parti mancanti? Anche solo un riconoscimento…
Ma mentre un cavaliere festeggia i suoi trionfi riverito alla mensa delle virtù, un Drago preferisce servirsi da solo. Era troppo antico per badare ancora alle maniere. Non aveva più bisogno di espedienti. Si crogiolava quindi nell’eco della sua reputazione, nella consapevolezza della sua natura.
Percepì la paura dell’uomo che lo guardava ipnotizzato negli occhi. O forse era la sua di paura?
“Moriresti per me?” udì di nuovo l’eterea voce.
Giorgio trasalì, risvegliandosi dal sogno. Anche il Drago.
Tirò la fune con tutta l’energia che aveva in corpo per stringere al massimo il cappio intorno al collo della bestia. L’azione fulminea bloccò sul nascere la gittata di fuoco. Il Dragò rantolò sbuffando fumo nero dalle narici. Subito la creatura reagì all’ingiuria dibattendosi selvaggiamente. Percosse la terra con la sua coda, con una furia tale che in città le pareti delle case vibrarono e i tetti scricchiolarono.
Giorgio scaraventato in basso e in alto più volte, aveva perso il controllo della fune. Doveva anche aver battuto la testa: gli doleva la fronte e aveva gli occhi impastati di polvere. A ogni caduta si rialzava col fiato più corto. Poi prese un respiro e gridò:
“Sono nato per servirvi… Morirò servendovi!”
Il Drago si arrestò nuovamente per scrutarlo.
Giorgio vide luccicare a terra una lama, riconobbe la spada che gli era sfuggita e si affrettò a raccoglierla. Una volta impugnata l’elsa si accorse che non era la sua: era una spada d’oro scintillante, che sembrava emanare una luce propria. Le forze gli rifiorirono e il dolore delle ferite si attenuò. Anzi, si sentì come guarito da una malattia che non sapeva definire e nuovamente percepì la sicurezza scorrere in lui. Ringraziò il Cielo per la spada di sole e corse incontro al Drago per portare a termine la sua lotta.
Quando Messer Giorgio trafisse il cuore del Drago, tutti furono scossi da un brivido. L’urlo della bestia rimbalzò da montagna a montagna, di città in città. Poi il sole sbucò dalle nubi, le donne spalancarono le finestre e i bambini corsero per le strade.
Vicino al lago in una pozza di sangue giaceva il Drago con la spada conficcata tra le costole. Poco più lontano, Messer Giorgio era disteso immobile con la faccia rivolta a terra.
“Moriresti per me?” furono le ultime parole udite dal cavaliere.
Giunse poi un festoso scampanare: certo, era il suono delle campane, non aveva dubbi. Ma dove si trovava adesso?
Qualcuno lo riportò in posizione supina, lo abbracciò e gli carezzò dolcemente la fronte.
Provò ad aprire gli occhi, ma aveva la vista annebbiata. Scorse appena un viso delicato, e lunghi capelli dorati fluttuare. Una luce calda lambiva il suo corpo.
“Dolce volto d’angelo… Mi sono forse guadagnato il Paradiso?” sussurrò.
La principessa gli sorrise:
“Non ancora Messere, non ancora…”
In città seguirono giorni e notti di festeggiamenti, mentre Giorgio al castello veniva curato e riprendeva le forze. Ci furono banchetti in suo onore e molti padri gli offrirono le proprie figlie in sposa. Ma a lui erano care solo le premure della principessa.
Pensando alla benevolenza del re, alla grazia di sua figlia da cui oramai era difficile separarsi, Messer Giorgio si domandò se fosse giunto il momento di arrestare il suo cammino. Scrutò l’orizzonte in direzione del lago… poi si rispose:
“Non ancora… non ancora…”.

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